Quante volte avete sentito dire "è ADHD" invece di "ha l'ADHD"? Oppure "è dislessico" anziché "ha la dislessia"? Queste sfumature linguistiche potrebbero sembrare una mera questione di preferenza espressiva, ma nascondono importanti implicazioni concettuali, scientifiche e identitarie che meritano un'analisi approfondita.

In questo articolo, esploreremo questa questione attraverso diversi passaggi. Prima analizzeremo la distinzione linguistica tra "essere" e "avere" e le sue implicazioni concettuali. Poi, utilizzando il modello a tre livelli di Uta Frith, esamineremo come la diagnosi nosografica operi solo a livello comportamentale, ignorando spesso i livelli cognitivo e neurobiologico. Discuteremo i limiti delle attuali etichette diagnostiche e le problematiche dell'approccio terapeutico basato su di esse anziché sul profilo neurofunzionale individuale. Analizzeremo poi il ruolo fondamentale del contesto nel determinare quando una differenza neurocognitiva diventa un "disturbo". Affronteremo la mancanza di una terminologia adeguata per descrivere l'architettura neurocognitiva sottostante, arrivando infine a una proposta linguistica più coerente che rispetti la complessità dell'esperienza umana, con le sue implicazioni pratiche ed etiche.


La potenza delle parole: essere vs avere

Quando diciamo che qualcuno "è ADHD", stiamo implicitamente suggerendo che la persona e il disturbo sono un'unica entità inseparabile. È come dire che Mario "è influenza" invece di dire che "ha l'influenza". Suona strano, vero? Eppure, con i disturbi del neurosviluppo, questa fusione linguistica accade quotidianamente.

C'è anche un problema logico fondamentale in questa formulazione: ADHD è l'acronimo di "Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder", cioè "Disturbo da deficit di attenzione/iperattività". Dire "sono ADHD" equivale letteralmente a dire "sono un disturbo", una formulazione concettualmente incoerente. È come se una persona con diabete dicesse "sono diabete" invece di "ho il diabete".

Questa confusione linguistica riflette una confusione concettuale più profonda che può avere ripercussioni sul modo in cui concepiamo l'identità delle persone con diagnosi neuropsichiatriche. Ma per comprendere meglio questa questione, dobbiamo prima esaminare i diversi livelli di analisi che entrano in gioco quando parliamo di disturbi del neurosviluppo.


I tre livelli di analisi: oltre il comportamento osservabile

Prendiamo in prestito il modello proposto dalla neuroscienziata Uta Frith, che ha identificato tre diversi livelli di analisi dei disturbi del neurosviluppo:

  1. Livello comportamentale: ciò che osserviamo dall'esterno (difficoltà di attenzione, iperattività, impulsività)
  2. Livello cognitivo: i processi mentali sottostanti (deficit di funzioni esecutive, elaborazione delle ricompense, percezione del tempo)
  3. Livello neurobiologico: le strutture e funzioni cerebrali coinvolte (differenze nella corteccia prefrontale, nei circuiti dopaminergici, ecc.)

Quando facciamo una diagnosi di ADHD secondo i manuali diagnostici come il DSM-5, stiamo principalmente operando al livello comportamentale. È un po' come giudicare un iceberg guardando solo la punta che emerge dall'acqua, senza considerare la sua struttura complessa sotto la superficie. Questa limitazione delle diagnosi nosografiche ci porta a esaminare più a fondo i loro limiti e le conseguenze per l'approccio terapeutico.


I limiti delle etichette nosografiche e l'approccio terapeutico

Le diagnosi categoriali come l'ADHD sono costrutti sindromici: parliamo di "disturbo" solo quando sono presenti un certo numero di sintomi che soddisfano criteri specifici (età di insorgenza, durata, compromissione funzionale, esclusione di altri fattori causali). Questi criteri sono convenzioni stabilite da comitati di esperti, non verità assolute o entità biologiche discrete.

Queste diagnosi hanno indubbiamente una loro utilità: permettono ai clinici di comunicare efficacemente tra loro, identificano pattern reali di funzionamento, hanno valore (relativamente) predittivo su decorso e risposta ai trattamenti, e forniscono accesso a servizi e supporti essenziali. Tuttavia, rappresentano una semplificazione di una realtà neurobiologica e psicologica molto più complessa e sfumata.

E qui emerge un problema fondamentale: stabilire protocolli terapeutici sulla base della diagnosi nosografica invece che sul profilo neurofunzionale specifico dell'individuo porta a interventi meno efficaci. Due persone con la stessa diagnosi di ADHD potrebbero avere configurazioni completamente diverse di deficit attentivi, impulsività e regolazione emotiva, richiedendo approcci terapeutici distinti. I protocolli standardizzati tendono a trattare tutti i pazienti in modo simile (approccio "one-size-fits-all"), spesso concentrandosi principalmente sulla correzione dei deficit piuttosto che sul potenziamento dei punti di forza.

Ma c'è un altro aspetto cruciale da considerare: quando e perché una particolare configurazione neurocognitiva diventa un "disturbo"? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo esaminare il ruolo fondamentale del contesto.


Quando la differenza diventa disturbo: il ruolo del contesto

Una particolare struttura neurofunzionale non è intrinsecamente "disturbata" o "patologica". Diventa problematica soprattutto quando interagisce con un ambiente che richiede caratteristiche diverse.

Pensateci: in una società di cacciatori-raccoglitori, la capacità di notare rapidamente stimoli diversi nell'ambiente (quella che oggi chiamiamo "distraibilità") potrebbe essere stata un vantaggio evolutivo! È principalmente nella nostra società moderna, con aule silenziose e uffici che richiedono attenzione sostenuta su compiti ripetitivi, che questa caratteristica diventa un "deficit".

Tuttavia, sarebbe semplicistico attribuire tutte le difficoltà esclusivamente al contesto. Alcune configurazioni neurocognitive comportano sfide significative che non sono semplicemente il risultato di un ambiente inadeguato. Problemi severi nell'autoregolazione emotiva o nell'impulsività possono creare difficoltà in quasi qualsiasi contesto umano, anche se l'ambiente può mitigare o esacerbare queste difficoltà.

La realtà è più complessa di una semplice dicotomia "problema biologico" versus "problema contestuale". Esiste un'interazione continua tra le caratteristiche neurobiologiche dell'individuo e le richieste dell'ambiente, dove entrambi i fattori determinano quando una differenza diventa un disturbo.

Questa prospettiva contestuale ci porta a un problema terminologico: come possiamo riferirci all'architettura neurocognitiva sottostante, che non è in sé un disturbo ma può manifestarsi come tale in certi contesti?


Alla ricerca di un termine: l'architettura sottostante al "disturbo"

Nel nostro linguaggio manca una chiara distinzione per definire l'architettura neurocognitiva sottostante che può manifestarsi come "disturbo" in certi contesti, ma che ha anche lati positivi in altri.

Prendiamo la dislessia. I punti di forza spesso associati alle persone dislessiche - come la creatività o il pensiero visuo-spaziale - non sono insiti nel "disturbo della lettura" in sé. Derivano dalla stessa architettura neurocognitiva sottostante che, in contesti che richiedono lettura fluente, si manifesta come difficoltà.

Termini come "neurodiversità" o "neurodivergenza" vengono spesso proposti, ma presentano anch'essi problemi concettuali. In un certo senso, tutti siamo "neurodiversi" su singoli parametri cognitivi. Quanto a "neurodivergente", sorge la domanda: di quanto si deve "divergere" e su quali parametri specifici per essere considerati tali? Rischiamo di ricadere nello stesso problema delle categorie discrete.

Va riconosciuto che questi termini hanno anche una dimensione politico-identitaria, non solo descrittiva, e per molte persone rappresentano una rivendicazione positiva della propria differenza. La questione di chi abbia l'autorità di definire la terminologia appropriata - ricercatori, clinici, o le persone direttamente interessate - rimane aperta.

Nonostante i limiti concettuali che abbiamo evidenziato, il termine "neurodivergente" può comunque essere utile in questa fase come soluzione pragmatica, in attesa di una terminologia più precisa e condivisa. Anche con le sue imperfezioni, ci offre uno strumento linguistico per distinguere l'architettura neurocognitiva di base dalle sue manifestazioni problematiche in contesti specifici. Su questa base, possiamo formulare una proposta linguistica più coerente.


Una proposta coerente: distinguere l'essere dall'avere

Basandoci sulle considerazioni sviluppate finora e adottando pragmaticamente il termine "neurodivergente" pur riconoscendone i limiti, ecco una proposta per affrontare il dilemma linguistico:

  • "Sono neurodivergente" - per riferirsi all'architettura neurobiologica e neurocognitiva di base, riconoscendo la sua connessione con l'identità della persona
  • "Ho l'ADHD" - per riferirsi specificamente alla manifestazione comportamentale che soddisfa i criteri diagnostici in contesti specifici

Dire "sono ADHD" risulta fondamentalmente problematico non solo per le implicazioni identitarie, ma anche per l'incoerenza logica di base: equivale a dire "sono un disturbo", una formulazione che confonde la persona con la condizione.

È importante però riconoscere che molte persone utilizzano questa espressione e potrebbero trovare in essa un senso di appartenenza. In questi casi, alternative come "sono parte della comunità ADHD" o "sono una persona neurodivergente con ADHD" potrebbero mantenere gli aspetti positivi dell'identificazione con una comunità, evitando la riduzione della persona alla diagnosi.


Oltre le parole: implicazioni pratiche e considerazioni etiche

Le distinzioni linguistiche e concettuali che abbiamo esplorato non sono un mero esercizio accademico, ma hanno profonde implicazioni pratiche. Sul piano clinico, il passaggio da un approccio basato sulle categorie diagnostiche a uno centrato sul profilo neurofunzionale specifico rappresenterebbe una rivoluzione nella pratica terapeutica. Permetterebbe interventi più precisi e personalizzati, mirati alle specifiche aree di difficoltà e che valorizzano i punti di forza dell'individuo.

Va riconosciuto che mancano ancora studi empirici sistematici sugli effetti delle diverse formulazioni linguistiche sull'autostima, lo stigma o i risultati dei trattamenti. Ciò che proponiamo richiede conferma attraverso ricerche rigorose.

La questione solleva importanti considerazioni etiche sulla terminologia e l'accesso ai servizi. La maggior consapevolezza di questi diversi livelli di analisi potrebbe portare a un cambiamento negli interventi, spostando il focus dalla semplice "normalizzazione" del comportamento all'adattamento reciproco tra individuo e ambiente.

Come sottolinea il modello sociale della disabilità, spesso non è l'individuo a essere "disabile" in sé, ma è l'interazione tra le sue caratteristiche e un ambiente non adatto che genera disabilità. Tuttavia, questo modello deve essere integrato con una comprensione delle reali sfide biologiche che alcune persone affrontano.

Tutte queste riflessioni ci portano verso una visione più complessa e sfumata della neurodiversità e dei disturbi del neurosviluppo, che richiede un linguaggio altrettanto ricco e rispettoso.


Conclusione: verso un linguaggio più rispettoso della complessità umana

L'importante è ricordare che la mappa non è il territorio. La diagnosi è uno strumento, non una definizione esaustiva della persona. Il cervello neurodivergente non è "sbagliato" – è semplicemente diverso, con i suoi punti di forza e le sue sfide contestuali.

Avremmo bisogno di un linguaggio che riconosca sia la realtà biologica delle differenze neurobiologiche, sia l'interazione contestuale che determina quando queste differenze diventano vantaggiose o problematiche, sia la complessità dell'identità umana.

Solo superando la falsa dicotomia tra "normalità" e "patologia" possiamo riconoscere che il cervello umano esiste in un continuum di infinite variazioni, ognuna con il proprio mix unico di potenzialità.

E voi, quale linguaggio trovate più utile per descrivere la vostra esperienza o quella delle persone che conoscete? Esiste un vocabolario adeguato per parlare di queste differenze senza ricadere nelle trappole della categorizzazione eccessiva o della patologizzazione?

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